Sono ormai più di 20 anni che mi occupo di formazione.

Ho sempre cercato, come facilitatore professionista, di scomparire per lasciare emergere il più possibile le capacità delle persone.

Un modello che mi ha permesso negli anni di creare format fantastici, coinvolgenti, curati nel dettaglio in modo maniacale.

Quasi tutti richiedono il coinvolgimento attivo dei partecipanti, quasi tutti cercano di raggiungere uno stesso obiettivo: far scendere la formazione a un livello pratico, operativo, senza banalizzare i contenuti educativi. Cercando, piuttosto, di diluire la parte teorica nella pratica.

C’è solo un modo per farlo. Costruire processi, schemi, modelli che consentano alle persone di mettere alla prova le capacità, liberare le intuizioni.

A me capita di rendere possibile tutto ciò nella pratica del saper fare. Il project work, l’obiettivo da realizzare, la cultura del “vostro” progetto.

Negli anni è diventato un pensiero quasi ossessivo. Scrivere istruzioni ben organizzate per permettere ai miei interlocutori di sviluppare in modo efficiente ed efficace una soluzione nel minor tempo possibile. Inutile dire che, per arrivare a questo approccio, ho potuto mettere a valore una serie di ispirazioni:

– la soggezione del saper fare – la maggior parte delle persone, questa è pratica di vita, è inibita rispetto alla realizzazione dei propri progetti in forma concreta. Le frasi che ricorrono sono: non lo so fare, non ho le competenze per farlo, la parte operativa non è il mio forte;

– l’ignoranza del come fare – non è un giudizio di valore, ma una constatazione. La maggior parte delle persone cerca di proteggere le proprie competenze recintandole e circoscrivendole. Il risultato è che nessuno si azzarda a varcare quella soglia. Spesso, si ignora che il modo più semplice per imparare a fare una cosa diversa dal proprio settore di competenza è provarci. Conoscere il contesto, abbracciare con curiosità nuove idee, leggere le istruzioni. Conoscere le regole;

– il desiderio di saper fare – è una pulsione fortissima. Nonostante tutto, il nostro pensiero è sempre orientato a qualcos’altro, qualcosa che tenga in vita la nostra tensione verso la scoperta, il viaggio, la meta. Riuscire a realizzare qualcosa è fonte di sicurezza in se stessi, ragione di soddisfazione, crescita di abilità. Riuscire a capire come fare qualcosa e poi farlo è la chiave della serenità;

Naturalmente la formazione ha anche altri elementi da considerare e, la maggior parte, sono sfide importanti per un formatore o facilitatore:

– le barriere e la diffidenza – nell’information overload attuale, bersagliati da contenuti di ogni tipo, la prima reazione è proteggersi. A volte il non saper fare confluisce nel non voler fare, una sorta di disincanto e stanchezza causati dall’eccesso di stimoli. Una demotivazione che può diventare una specie di zona di comfort. Non so farlo e non ho interesse a farlo, ho provato a farlo ma poi ho mollato, ma chi me lo fa fare? La diffidenza è un sistema di protezione anche rispetto ai tanti, forse troppi tentativi di spingere le persone fuori dalle proprie aree di sicurezza. Siamo resistenti, reticenti e scettici ogni volta che ci troviamo di fronte un motivatore, un formatore, un trainer. Come a dire, anche stavolta non mi servirà a niente. Può essere vero, ma la crescita passa per l’equilibrio dinamico e l’equilibrio dinamico ha come prima regola di perdere ogni certezza per sperimentare ed esplorare altre possibili strade;

– il timore del tempo – la formazione, per chi partecipa, è un tempo speso che non torna. Più o meno come tutto. Ma la formazione, in particolare, ti prende il tempo con una promessa. Questo percorso ti servirà, questa esplorazione ti cambierà, avrai più conoscenza e più competenze. False promesse? Possibile. Ma senza mettersi in gioco diventa difficile anche solo riconoscersi un’opportunità di cambiamento. I formatori e i facilitatori lo sanno, e per questo hanno lavorato e lavorano su organizzazioni quasi meccaniche, scalette ferree, dinamiche intense scadenzate da ritmi veloci. Potrebbe sembrare superficiale ma, se partiamo dal saper fare, è un semplice assecondare la natura degli uomini, che è quella di essere progettisti, costruttori e creatori;

– il senso del gioco – concetto fondamentale e, devo dirlo, abusato. Per anni la formazione è diventata gioco anzi, esperienza di gioco. Poi, con il passare del tempo si è capito che a volte il valore metaforico del gioco perdeva di forza rispetto all’esperienza in sé, diventano un’occasione semplicemente per divertirsi e rompere la routine del lavoro. Giusto. Ma oggi abbiamo l’opportunità di costruire processi educativi basati perché no, sull’approccio ludico, senza perdere di vista l’utilità e la funzione di apprendimento degli obiettivi di un corso. Come? Esattamente come avviene in un videogioco dove hai missioni, ostacoli da superare, soluzione di individuare. A me capita ormai spesso di far partire un’attività formativa da un brief, una richiesta di formalizzazione di un progetto. Se parliamo di creazione di contenuti, perfetto: progettiamo e realizziamo un podcast, un programma streaming, un video o, magari, poniamo le basi per costruire un magazine, ecc. Mi concentro, cioè, sulla funzione che deve avere la creazione di un format rispetto al processo educativo. Anche qui c’è un passaggio, una facilitazione. I partecipanti costruiscono, creano, misurano se stessi.

La formazione sta cambiando. L’esplosione di corsi snack, pillole di saggezza, tutorial e via di seguito, rende complesso il lavoro di chi crede che l’apprendimento abbia bisogno di tempi e processi di un certo tipo.

Eppure la direzione sembra incoraggiante perché se è vero che le resistenze si sono alzate e la soglia di attenzione si è abbassata, è pur vero che mai come ora abbiamo la possibilità di utilizzare tanti strumenti per la progettazione e realizzazione di idee.

 

 

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